TRACCE pubblicato maggio 2020 Prefazione Guardiamo il mondo a testa in giù per coglierne la diversa prospettiva. Da anni scoviamo tracce, storie nascoste, perché diventino anche nostre, perché diventino della comunità. Questa pubblicazione è una traccia, sono le parole, i gesti di chi ha voluto dedicarci qualche ora del suo tempo per cantarci la sua storia. Nell’ambito delle attività di FUORI POSTO. FESTIVAL DI TEATRI AL LIMITE 2019-2020 VIII edizione, abbiamo realizzato una serie di interviste a persone che ci hanno svelato i pensieri sparsi, le parole, le emozioni attorno al tema delle “quotidiane disabilità”, vissute dai protagonisti, direttamente o indirettamente. Storie che fanno la “differenza”, che escono dall’intimità delle mura domestiche e si offrono a chi ha voglia di ascoltare. Queste interviste sono diventate un allestimento museale dal vivo. Ogni storia, ogni parola ci ha lasciato il segno e questo segno lo abbiamo trasferito in un’opera, un’installazione artistica, una performance, una pubblicazione, fino all’attimo prima di andare in scena, programmato per Marzo 2020, in una location come sempre Fuori Posto, la Sala Alessandrina dell’Ospedale Santo Spirito.  Ma da Marzo tutto è cambiato, ogni cosa si è congelata, sospesa, tranne il sole di questa primavera, puntato dritto sui vetri delle case. A questo sole, a questo impulso, abbiamo reagito con quello che ci viene meglio fare, rimettere tutto in discussione, tutto fuori posto. Allora sì, la primavera ci ha raggiunto dentro casa, per rimescolare tutto e farci diventare un Museo Virtuale di storie, per avvicinarci al pubblico come abbiamo fatto sempre in questi anni, in tutti i luoghi attraversati e non convenzionali della città, mercati, musei, piazza, parchi. E anche oggi siamo in un altro luogo fuori posto: online. In questo spazio sospeso, ma prossimo al pubblico, possiamo narrare le storie delle persone che abbiamo intervistato. Urgenti di uscire, loro sono state la nostra aria fuori dalla finestra. Queste storie potete trovarle, nello spazio del museo virtuale, accompagnate da due testimonianze raccolte durante il lockdown, e poi qui tra queste pagine, sintesi delle interviste realizzate. Prendetevi del tempo per visitare il nostro museo di stralci quotidiani, leggete questo libretto, e fatevi trasportare dalla vostra curiosità, come dice uno dei nostri protagonisti “dagli sguardi che non sanno dove mettersi, che hanno voglia di incontrare, di capire”. Perché la “diversità” a volte fa paura, la sfuggiamo, e raramente si fanno domande. Se leggerete, invece, chiedere vi sarà necessario, impellente. Emilia Martinelli Direttrice artistica Festival Fuori Posto Introduzione Ci siamo fatti aiutare da alcune associazioni, cooperative e realtà sociali che operano nel territorio del Municipio Roma I Centro e che ringraziamo. Grazie ad esse abbiamo conosciuto le persone da intervistare, persone che hanno avuto voglia di raccontarsi e che, attraverso la loro narrazione, ci hanno regalato ricordi e emozioni ed hanno condiviso paure e sogni. Abbiamo intervistato mamme e papà, nonne e nipoti, donne, uomini, ragazze e ragazzi. Ad ognuno abbiamo chiesto di raccontare di sé, dell’altro, dei vissuti e di descrivere la disabilità, anche utilizzando metafore. Le metafore consistono in un mezzo di rappresentazione di un pensiero, di un concetto, di un’associazione d’idee. Sono efficaci strumenti di comunicazione perché riescono a rapportarsi bene con sensazioni che, a volte, non siamo in grado di esprimere con parole diverse.  In questo senso, le metafore creano nuove strutture di pensiero. Il tipo di descrizione di una realtà suggerita da una metafora risulta più “luminosa”: chi ode una metafora è portato, per poterla comprendere, a vederla nella mente per verificarne l’immagine. Le interviste hanno permesso di rammentare ossia ricordare, richiamare alla propria memoria e a quella altrui, ma anche di rammendare ossia ricucire, ricomporre, ricostruire ricordi per poterli offrire ad altri. Dalle interviste sono state tratte le storie. Pur concedendoci qualche licenza poetica, le storie rappresentano la riscrittura fedele di ciò che le persone ci hanno raccontato. Come i fili sapientemente tessuti danno vita ad una trama, così le parole delle persone intervistate sono state intrecciate fino a diventare tracce, testimonianza, e nel caso di Blu e Perché dovevo essere Vittoria, la nonna di Mattia, racconti. Abbiamo deciso di lasciare intatte anche le caratteristiche del linguaggio parlato. Le ripetizioni, le esitazioni, le espressioni personali sono state volutamente mantenute perché sottolineano e rafforzano lo stato d’animo degli intervistati e danno al lettore la possibilità di entrare nella loro gestualità testuale. Nelle storie abbiamo preferito utilizzare nomi di fantasia. Leggere queste storie è importante. Vuol dire riconoscere il valore dei protagonisti, provare a mettersi nei loro panni e comprenderne sforzi, fatiche e conquiste, ma vuol dire anche concedersi la possibilità di imparare dall’altro modificando, spostando, arricchendo il proprio punto di vista sulla vita. Angela Rossi Psicologa, Ricercatrice Il nostro museo virtuale è online: www.festivalfuoriposto.org Storia 1: la danza di Sara Sara è nata di notte, tra il sabato e la domenica, per cui il giorno dopo in ospedale non c'era nessuno, non c'erano i medici. Questa bambina era molto piccola, aveva una testina piccolissima, aveva degli occhi strani, ma lì per lì non ci ho fatto caso. Non avevo mai visto così da vicino un bambino appena nato e quindi pensavo che gli occhi dovessero essere così, quelli di tutti. Invece aveva proprio questi occhi a goccia, che poi erano uno dei segnali della sua malformazione, come la sua testa così piccolina. “Ma è successo? E’ vero? Forse ho sognato tutto, non è così che è andata”. Quasi quasi non li volevo aprire gli occhi, non volevo vedere. Laddove io ho avuto un iniziale rifiuto, il papà ha avuto un immediato puro amore verso quest'esserino. Lui ha avuto uno slancio immediato verso di lei. Una creaturina urlante per la maggior parte del giorno e della notte, con la quale io ero disperata. Pensavo che non sarei mai riuscita a far nulla, perché chiaramente non riuscivo a capire perché piangeva, quali erano i suoi bisogni, non immaginavo che, invece, saremmo arrivate a trovare un modo per conoscerci, per comunicare. Per strada correvo letteralmente col passeggino, per tornare a casa, perché Sara piangeva. Quei primi anni gli sguardi mi facevano proprio male. Adesso mi sono un po' corazzata e quindi a volte rispondo, soprattutto se gli sguardi arrivano dai bambini. A volte i genitori se li portano via: “Non guardare non guardare”, gli dicono a bassa voce. Inibiscono una curiosità naturale. Quando sono i bambini a chiedere, io cerco di parlare invece, di spiegare. “Ma perché lei sta lì? Si è fatta male?” chiedono e io: “è nata con qualche problemino e quindi non può camminare, però può fare altre cose”. Sara, mia figlia, è una persona. Una persona che vive una condizione particolare e quindi dico loro di non averne paura. È proprio la paura che blocca, hanno proprio paura di avvicinarsi. Ho imparato a fare i conti con le reazioni delle persone, degli amici, della sfera familiare anche, e, insomma, ci sono delle fughe, ci sono delle sparizioni. C'è una non accettazione, una paura appunto. C'è allora, da parte di alcuni familiari, un dolore e un non riuscire ad accettare questa nostra vita così com’è. È complicato, è complicato avere relazioni con persone che magari hanno figli della sua stessa età, o comunque più piccoli, più grandi, perché chiaramente non ti chiamano, non ti invitano, non ti dicono “Vieni al pic-nic con noi”, perché sanno che sarebbe un problema per noi, ma pure per loro. La forza l’ho trovata nel mio carattere, forgiato dalla danza fatta sin da bambina. Perché la danza è una disciplina ferrea. Quando danzi, fai tutti i giorni i conti con la ricerca della perfezione e questa modalità te la porti anche nella vita. È un po' un paradosso la nascita di Sara in questa ricerca della perfezione mia, perché mi sono ritrovata ad avere a che fare con un corpo assolutamente imperfetto, secondo i canoni della danza classica. Io che avevo cercato sempre una grazia, una bellezza, un'armonia, perché questo era per me la danza venendo dal balletto, chiaramente questo. Ma in lei dovevo trovare qualcos'altro, e ho trovato una forma diversa di bellezza e di grazia. E quindi questo... appunto, sicuramente è stata la danza a darmi la forza, il fatto che la danza mi ha insegnato che se c'è da fare una cosa, se c'è da studiare, se c'è da fare un sacrificio si fa, c'è un obiettivo da raggiungere. Ripeto, sono soprattutto i primi anni, perché i primi anni sei veramente in una trincea continua ogni giorno. Intanto perché devi vedertela con una burocrazia pazzesca, ci sono continuamente visite, visite su visite, ci sono continuamente moduli da riempire, domande da fare, file agli ospedali, alle ASL, i CAF... Per ogni cosa devi avere un permesso: e il permesso disabili e il parcheggio e... quindi è un lavoro, è proprio un lavoro. Adesso la forza me la da lei però, col suo sorriso così disarmante. A volte, quando magari mi dico: “oddio adesso no, non ce la faccio più” arriva lei, mi basta guardarla e mi fa andare avanti.  C’è un posto nostro in cui tutto è leggero, tutto ha grazia: nell’acqua. Stare insieme nell'acqua è un'esperienza avvolgente e non c'è il peso, non c’è gravità. Il concetto di gravità, che poi è così importante nella danza, no? Per Sara questa parola ha un altro significato. Gravità nel senso di gravità della sua condizione, della sua patologia e gravità che in fondo lei non ha mai potuto sperimentare, perché comunque lei non è mai riuscita a stare in piedi e... a cadere. Questo ha coinciso anche con la sua crescita, col suo aumento di peso e quindi con l’impossibilità di prenderla in braccio, di tenerla. Invece, quando stiamo nell'acqua, si può ricreare un abbraccio, una vicinanza, un'aderenza proprio perché non c'è la sedia a rotelle. Lei in sedia deve stare allacciata, con le cinghie, con le cinture, perché altrimenti non si tiene e poi le altezze sono diverse. Invece, quando stiamo nell'acqua, ci possiamo proprio stringere ed essere leggere. Insieme. Lo Scafandro e La Farfalla è un po' una metafora del mio desiderio per lei. Quello che vedo in Sara è che lei vorrebbe fare tantissime cose, cioè io intuisco che lei vorrebbe a volte fare chissà cosa, però non può. E’ questa condizione, che la blocca, la imprigiona le impedisce di spiccare il volo. Il mio desiderio è che il suo sorriso le faccia spiccare il volo, come una ballerina. Storia 2: continuate a trattarmi come avete sempre fatto, anche se ho la sclerosi multipla Elena La mia sclerosi è un vaso, un vaso che mi è caduto in testa, è stata una bella botta, non me l'aspettavo, ha fatto male, perché fa male. Però questo vaso, con il tempo, dalla testa ho iniziato a spostarlo, l’ho portarlo vicino a me, per gestirne il peso. Ci cammino insieme ora, e ci ho piantato pure un girasole. Se dovessi mettere oggi su una bilancia tutto quello che ho ricevuto, dopo la diagnosi, rispetto a ciò che mi ha tolto, è molto più quello che la diagnosi mi ha dato, e soprattutto che io mi sono voluta prendere. Non è una diagnosi a determinare la nostra persona, ma siamo noi a decidere per la nostra vita. Carlotta Inizia un vortice sotto Natale: 9 dicembre, la data dell'inizio del mio farmaco, del mio migliore amico, per il momento. Quando l'ho cominciato gli ho detto: “non mi devi tradire mai, staremo insieme, speriamo per tutta la vita, insomma il più a lungo possibile. Sarò io a decidere di abbandonarti e non tu a farmi male”. Perché la vita non finisce con la diagnosi, si aprono altre porte, altre opportunità, come la conoscenza di tante persone, quelle che prima erano nascoste ai miei occhi foderati di prosciutto. E poi ho visto, ho fatto un percorso di consapevolezza personale, e pure condivisa. Sono otto anni che frequento l’AISM (Associazione Italiana Sclerosi Multipla) e faccio tante cose come volontaria. E la cosa che mi piace di più è proprio quella di parlare alle persone. Io spingo tanto sul confronto, spingo perché a me è servito tanto il confronto.  Infatti, la prima cosa che dico alle persone che incontro in AISM è: “parlate, io sono nella vostra stessa barca, non vi chiudete, non state a casa, mettetevi in gioco, non rinunciate a niente”. Storia 3: le misure giuste La vita è un po' un campo di battaglia: mi sono sempre sentita guerriera, pronta a fronteggiare tutti gli ostacoli che la vita mi ha posto. Ho sempre preso le misure, quelle che ritenevo giuste. Faccio le attività assistite con gli asini: è l’onopedagogia, un modello che ho creato grazie ai miei studi e dopo dieci anni di lavoro in questo campo. Ho unito gli asini e la musica che sono le mie passioni. Gli asini lavorano molto bene con le persone che hanno problematiche cognitive. Sono coccoloni, amano la relazione, sono empatici e con la musica classica diventa qualcosa di molto bello. Intimo. Io suono e canto da quando ero bambina. La musica mi ha sempre aiutato, anche nella mia disabilità e l'ho sempre vissuta dentro, intimamente. E poi amo il contatto con la natura. Camminando, stando al sole e facendo attività, la coordinazione, la concentrazione, la motricità, tutto migliora. È una buona pratica di cui voglio farmi portavoce, un esempio di vita: “se ce l’ho fatta io, ce la puoi fare anche tu”. La disabilità è un campo di battaglia, ma è anche un seme che deve evolversi: devi dargli la luce, gli devi dare l'acqua. Serve cura, attenzione, tempo per crescere. Io sento di averla ricevuta questa cura e non ho mai guardato troppo gli sguardi degli altri, ho sempre avuto molto. Io so chi sono, conosco i miei limiti. “Perchè sei così piccolina?”. Sono sempre io a spiegare, spiego quello che per me è difficile fare e spiego quello che so fare. Crescendo ho capito che l'altro, a volte, non può capire perché non conosce e quindi bisogna spiegare, parlare. Negli anni, mi sono conquistata spazi dove mi sento a posto. La mia casa, la consulta, il maneggio dove lavoro. Ma, pensandoci, sto bene dappertutto, basta saper prendere le misure giuste. Voglio lasciare un’impronta, voglio prendermi cura delle persone, voglio che nessuno rimanga solo. Storia 4: le battaglie di Mylene Sono una mamma che ha avuto una bambina tetraplegica gravissima. All’epoca, nel 1974, non c'era niente e così come me tante altre mamme, non sapevamo niente. Eravamo giovani, istruite e dunque ci siamo mosse, abbiamo cominciato le nostre prime battaglie. Verso la legge 104 La prima battaglia è stata quella di chiedere il diritto di andare a lavorare, come tutte le altre mamme. Mi sono accorta che c'era una legge, la legge 1204, che tutelava la maternità e il diritto, per mamme che avevano un bambino neonato, di stare a casa, di avere dei permessi, permessi per l'allattamento ecc… Noi avevamo dei figli “diversi”, che avevano quattro, cinque anni, ma che bisognava imboccare con dei cucchiaini… il latte con i cucchiaini... ci si metteva anche due ore. Ma noi, non avevano nessun diritto. E da lì è scattata la prima battaglia, e abbiamo riscritto la legge 1204. Sono andata da un avvocato e gli ho detto: “senti, guarda cosa ho scritto, traducilo in modo giuridico, scriviamo che anche chi ha dei bambini disabili di due, tre anni, undici anni, possa usufruire di permessi per badare a questi figli. Abbiamo avuto contro le associazioni, i sindacati, i datori di lavoro e tutti. Però, poi abbiamo trovato delle donne stupende, come il ministro Iervolino e la Turco, che hanno capito il nostro bisogno di donne di andare a lavorare, senza però abbandonare questi figli, e dunque hanno inserito questo articolo che è diventato poi, nel 1992, la legge 104, articolo 33. Praticamente, il diritto dei genitori lavoratori con figli disabili di avere dei permessi, di avere i tre giorni, quello che è poi stato esteso ad altri familiari, a tutta la famiglia, anche a chi aveva un fratello o un genitore con disabilità. Quando le donne si mettono insieme riescono. La scuola Altra esperienza molto positiva è stata quando ho portato mia figlia a scuola. Il suo inserimento alla scuola materna. Avevo avvertito mesi prima: “mia figlia non regge la testa, è gravissima, tetraplegica, non parla, ha due occhi stupendi bellissimi e un bel sorriso, ma ha bisogno di una sedia e di un banco, diciamo ... apposito per lei”. Difatti, erano stati stanziati dei fondi anche per l'integrazione scolastica dei bambini con disabilità. A questo punto il dirigente mi fa: “stia tranquilla, non si preoccupi, sua figlia avrà il tavolo e la sedia adatti”. Quando sono andata a scuola non ho trovato né sedia né banco, niente. Le maestre, meravigliose, mi hanno detto: “no, i bambini stanno nel passeggino” e ho risposto: “scusi, ma tutti questi bambini che sono qua, si sono portati la sedia e il tavolo da casa? Se lo hanno portato, anche io porto il seggiolino, il passeggino”. E mi fa: “no”. E allora ho preso mia figlia, l'ho data in braccio alla maestra e me ne sono andata. Da quel momento è venuto fuori, diciamo, lo scombussolamento, il movimento. Perchè la maestra non poteva più insegnare, però ha sensibilizzato tutte le altre maestre, le altre mamme e tutti, tanto che ad un certo punto il dirigente non sapeva più cosa fare. Alla fine, le hanno fatto una sedia e un tavolo apposta per lei. E poi anche per gli altri bambini con disabilità. Ne hanno fatto una buona prassi.  La Rai ne fece anche un documentario. Era un diritto di Dalia avere queste cose, e io non volevo fare come chi prima di me nascondeva la disabilità, se ne vergognava. Dalia doveva andare a scuola, come tutti gli altri. Indennità di accompagnamento Ho copiato dalla Loi d’Orientaction del 1975 che era una legge francese. Davano degli assegni alle persone con disabilità, alle famiglie, proprio per aiutarli. Un supporto con dei servizi e anche una location, come dicono loro, un assegno secondo la gravità. Noi all’epoca non avevamo nulla. E dunque siamo andati in Parlamento, ci siamo battuti e abbiamo detto che se non ci davano almeno un supporto economico, ad un certo punto saremmo andati a Strasburgo, alla corte di Strasburgo. E invece il giorno dopo è arrivata l'indennità di accompagnamento. All'epoca, l'indennità di accompagnamento era per le persone con disabilità non deambulanti, gravissimi che avevano bisogno di essere aiutate ventiquattr'ore su ventiquattro. E dunque era un riconoscimento proprio per la gravità della persona con disabilità.  La Carta europea del familiare assistente A livello europeo mi sono battuta per il riconoscimento giuridico del lavoro di cura per i familiari assistenti. Perché in Europa è riconosciuto. Abbiamo scritto la Carta europea del familiare assistente. Per avere degli orari agevolati, flessibilità dei tempi di lavoro, avvicinamento al posto di lavoro dove è possibile, e poi screening gratuiti regolari perché, da studi fatti, ormai sappiamo che il familiare assistente ha un accorciamento della vita di diciassette anni. Dunque il familiare va tutelato, va aiutato. Dopo di noi Come Consulta per le Politiche in favore delle Persone con disabilità – Municipio I,  abbiamo fatto un'indagine sul nostro territorio, un'indagine sui bisogni delle famiglie e delle persone con disabilità. E da questo questionario abbiamo raccolto dei dati preziosi. Dall’analisi di questi bisogni abbiamo dedicato e dedicheremo le nostre conferenze. La prima conferenza è stato dedicata al dopo di noi perché è emerso che i genitori sono tutti angosciati sul dopo di noi. E su questo stiamo lavorando ancora, sia a livello locale che nazionale. È un tema di tutti, la domanda che ogni giorno, e ogni notte, le famiglie delle persone con disabilità si fanno: “cosa sarà dei nostri figli quando noi non ci saremo più? Quale futuro, quale dopo di noi li aspetta?”. Storia 5: voglio una vita indipendente La diversità è pensare non allo stesso modo. Tipo le mani, sono diverse ma se le mettiamo insieme sono sempre tutte mani. Io ho 20 anni, ho finito scuola. Vivo con i miei genitori, ho due cani e sto facendo il tirocinio al CAF. Il pomeriggio esco con gli amici. A scuola mi sentivo tanto osservata. Mi guardavano, sì. Mi sentivo osservata tanto, tanto osservata, erano tutti incuriositi. Perché mi mettevo sempre all’ultimo banco. “Perché questa si mette sempre all'ultimo banco e non parla con nessuno?”. Non parlavo con nessuno, allora la prima impressione è che un po'... me la tiravo ecco. Loro, forse pensavano: “questa qua è un po' schizzinosa. Ma era solo perché, diciamo… mi vergognavo. Poi mi sono aperta, ho iniziato a parlare con i compagni, piano piano e poi vabbè diciamo... ci ho fatto amicizia. Con gli amici mi sento a posto perchè comunque sono tranquilla, mi danno serenità, cioè felicità, sto bene con loro. Quando però c’è troppa gente che mi guarda, mi sento un po' in ansia. Mi viene voglia di scappare via... però mi fermo un attimo in me e dico “no vabbè, cioè non posso scappare su questa cosa, perchè se lo faccio adesso che faccio il tirocinio, poi quando lavorerò davvero sarà più complicato”. “No, no vabbè, lascia perdere” mi dico, e allora mi faccio scivolare addosso gli sguardi. Perché se scappo cosa imparo? Io invece voglio imparare sempre di più ed avere un futuro indipendente. Voglio essere libera, avere una casa mia, pagare le bollette da sola, fare tutto tutto da sola. Essere felice. Voglio una vita indipendente. Storia 6: Fortissimo! Mario Allora io sono nato qui a Roma nel 2004. Da piccolo, quando ero nato, i primi anni, i primi inizi non è che mi ricordo particolarmente, però mi ricordo il mio ingresso a scuola. All'asilo le maestre non mi capivano e quindi mi sentivo un po' non compreso, non ascoltato, oppure anche durante gli scout, i miei capi non mi capivano bene. Questo mi provocava rabbia. Anche gli sguardi mi provocavano rabbia. Una volta con mio padre, tipo all'ASL in una sala d'attesa, c'era un vecchietto che mi osservava. Era inquietante, non so come mai, ma mi osservava. Cioè stavo lì, per i fatti miei, e lui mi osservava, questo vecchietto. Mi sentivo a disagio. Poi mi sono messo a giocare con i miei supereroi e mi sono calmato. Praticamente allora, io da piccolo, ero bensì un genio, ma ben volte uno un po', un po' come dire, uno che si comportava male, uno che... Col tempo, invece, sono migliorato con questi comportamenti, perché non capivo. Però ero bravo, io sapevo tutto, sapevo tutte le capitali del mondo, tutto. Fortissimo! Poi ho imparato a gestire la mia rabbia, a socializzare, ho imparato a capire, capisco anche un po' l'ironia ora, ho imparato tante cose insomma. Nel mio futuro, come lavoro, vorrei fare il diplomatico, ma prima di farlo devo trovare un'università specializzata in questo settore. Vorrei avere dei figli molto intelligenti e bravi come me. Che si interessano di tutto quello che succede e che non pensano a stupide mode. E poi speriamo che Alfredo, mio fratello, studi... che a lui proprio non interessa studiare. Chi lo capisce! La mamma di Mario Sono una mamma, sono separata, con due figli maschi appena adolescenti. Ero giovane quando ho avuto loro e non è che fossi veramente pronta forse, né alla maternità, né ad affrontare quello che è venuto poi. II primo figlio presentava delle anomalie nello sviluppo. Intorno ai 2 anni, ha iniziato alcune terapie: del linguaggio, della neuropsicomotricità, del comportamento fino che non è arrivata la diagnosi: disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento.  Nessuno vedeva il problema prima, perchè finché il bambino è piccolo si tende a dire: “no, non è niente, sei tu che inventi tutto, sono i medici che esagerano, gli insegnanti che esagerano”. Un bellissimo bambino, robusto, un bel viso, quindi non si notava nulla.  Poi arrivavano I suoi momenti un po’ agitati e lo sguardo era su di me. Cioè della serie, questa è una cattiva madre che non sa educare il figlio. Questa idea perdura anche dopo la diagnosi, devi spiegare perché le persone capiscano. E comunque tutti tendono a confondere e a colpevolizzare la madre: “il bambino è maleducato”. Anche la stessa famiglia si trova impreparata, a volte i nonni rifiutano di aiutare, perché non sanno gestire il bambino, tu non puoi dire: “ti lascio mio figlio, vado a lavorare”, entrano nel panico. Per tantissimo tempo sono stata l’unica a gestire le crisi di aggressività di Mario e tutto quanto il resto. Per molto tempo mi sono sentita sola. Ma oggi è tutto diverso. Oggi the winner is... Agnese! Perché Mario, ora, è alle superiori. E quindi adesso io sono il genitore che è riuscito a fargli fare il percorso, non più quella che aveva il figlio maleducato. E’ stato un lavorone grosso, soprattutto il suo. Mario ha voluto assolutamente sentirsi incluso, sentirsi integrato. Ha lavorato tantissimo per quello, con molta, molta volontà. Gli sguardi nei miei confronti sono cambiati, e pure gli occhi su di lui sono cambiati. Oggi quasi tutti vedono prima Mario, un ragazzo bizzarro certo, ma una persona intelligente, con una memoria fuori dal comune. Certo, a livello emotivo e sociale, è più piccolo della sua età, ma è una persona. C'è questa dualità in lui, questo disequilibrio: picchi di genialità e poi magari aree di grande fragilità. Lui, a volte si sente esaltato e a volte si sente guardato con sospetto e mi chiede: “perché mi guardano così?”. Quegli sguardi, spero che non ci siano più. Lo sguardo di quello che pensa “che ragazzino strano”. E’ vero Mario è strano, certo. Mario ha un superpotere speciale, come gli eroi dei fumetti. Questo superpotere serve, un po', a compensare una mancanza. Lui ha tirato fuori delle risorse per cui riesce comunque ad arrivare al suo obiettivo, prendendo però una strada diversa da quella che conosciamo tutti. Ogni persona ha proprio un talento specifico, un super potere, basta guardare prima quello negli altri, invece di soffermarci su ciò che manca. Siamo tutti supereroi, quindi, e non lo sappiamo. Storia 7: paperelle La voce ce l'abbiamo tutti, è uno strumento prezioso che abbiamo dentro di noi. Chiunque può tirarla fuori con più o meno difficoltà. Mio zio non ha mai studiato e comunque la voce ce l'ha e la tira fuori in qualche modo.  Sono la nipote di Giuseppe, una persona sorda di 88 anni. Sono cresciuta con lui, perché lui abita con la mia famiglia, in un paesino di provincia. Nonostante tutte le difficoltà di una persona che non ha studiato, lui ha trovato il suo modo per comunicare e ha lottato ogni giorno per acquisire un modo per comunicare con gli altri. Anche nell’espressione delle emozioni, è particolarmente istintivo. Noi ci alziamo la mattina e diciamo “oggi sono triste, oggi sono felice”. Lui non ha questa percezione, o meglio, ce l'ha ma non la comunica direttamente, la fa capire con il corpo. Lui muove i suoi stati d’animo. La sua disabilità non l'ho vista fino a che ero piccolina. Lui è stato il primo spettatore dei miei giochi. Ero una ragazzina molto timida, quindi tendevo più a giocare da sola che coi miei compagni. Lui mi guardava giocare da sola e veniva a dare vita ai miei sogni, ai miei personaggi immaginari. Giocavamo tanto insieme e ogni tanto guardavamo i film muti di Stanlio e Ollio. In quei momenti eravamo uguali, e ci divertiamo così. Non avendo mai studiato, era particolarmente curioso, e quando facevo i compiti veniva là, come per aiutarmi, ma non sapendo né leggere, né scrivere, disegnava sulla pagina bianca delle paperelle, forse erano gli unici segni che avesse mai conosciuto. Poi la mia mamma tornava e si arrabbiava, perché vedeva questa pagina imbrattata, però per me era bellissima, era colorata, era viva. Quelle paperelle mi hanno spinto fino ad oggi: studio la LIS e la infilo in tutti i lavori che faccio.  Zio Giuseppe, senza parole, mi ha aiutato a trovare anche la mia di voce. Storia 8: gli sguardi che non sanno dove mettersi Zia Concetta aveva la sindrome di Down. Mi ricordo che quando andavamo a casa dei nonni, noi guardavamo zia come una specie di mostro da cui scappare e di cui avere un po' paura. Zia era una donna con l’aspetto di una bambina, e ballava il geghegè con le canzoni della Carrà. Doveva essere la bambolina perfetta. Sapeva tagliare l'arancio con coltello e forchetta. Per la famiglia questo rappresentava la rincorsa di una normalità che non c'era, il tentativo di medicare una ferita. I miei nonni la vivevano come una colpa: Concetta, se pur amata all’eccesso, non poteva essere presentata, doveva essere protetta. Si racconta che mia madre la conobbe dopo sette anni di matrimonio e anche negli album di famiglia non c’è traccia di lei. Negli anni sono passato per la vergogna e per la rabbia. Capitava che, da grande, i miei genitori mi chiedessero di accompagnarla a Bolzano. Lì tutti erano biondi, parlavano in tedesco e tutto era perfetto, e poi c’eravamo noi. Zia piccola e scura, gli sguardi perfidi su di lei ed io, io iniziavo a balbettare. Quando inizio a parlare mi capita di balbettare, balbetto da quando sono un bambino. Sarà un caso o forse no, ma ho scelto di lavorare con la parola. Ne sento la scomodità a volte, e a volte non ci faccio troppo caso, me ne dimentico. Ogni tanto colgo uno sguardo di spaesamento. Non si aspettano che un terapeuta abbia una difficoltà proprio nella parola. E allora giù risate, mie e dei pazienti. È tutta una questione di punti di vista. Oggi, ricordando come io ho guardato zia Concetta, mi vengono in mente quegli sguardi che non sanno dove mettersi, che hanno voglia di capire. Come una lente vogliosa che dice: “perché balbetti? perché sei down?" Mi preoccupa quando uno sguardo che vuole sapere, non incontra risposta. Prendiamoci l'occasione di spiegare e di permettere a questo sguardo di incontrare l'altro. Storia 9: non arrenderti mai La mia Alice ha quattordici anni e mezzo ed è una ragazza felice. Le cose sono andate bene nel momento in cui abbiamo trovato le persone giuste che ci hanno aiutato. Non è stato facile. Ci vogliono persone che abbiano a cuore la completezza di tua figlia in tutte le sue sfaccettature. E tu devi diventare anche medico, oltre che genitore, e da lì imparare, capire. Non è stato facile. A volte la scuola mi ha deluso, mi sono sentita fuori posto. Lì bisognerebbe lavorare con tutti i ragazzi. Anche loro devono capire e sentire che i ragazzi con disabilità sono persone che vogliono le stesse identiche cose che vogliono gli altri, né più né meno. E bisognerebbe lavorare anche con i genitori. C'è chi fa finta di niente e chi, invece, ha bisogno di incoraggiarti in qualche modo e di dirti: “che ragazzina meravigliosa!”. A volte mi sento stanca. Ci sono giornate in cui, all'ennesima mamma che fa mille complimenti, risponderesti male. Ma non lo fai, non sarebbe giusto comunque. Io continuo a mettercela tutta, l'importante è trovare sempre la strada giusta e non stare mai fermi a pensare. Non si deve pensare troppo, bisogna saper essere, a volte, incoscienti ed agire. Spesso la strada giusta me la indica Alice. Lei ha una forza dentro che è molto più grande di quella che ho io, o magari ho questa forza e non lo so. Alice me lo ricorda allora. Ci si scopre e ci si conosce quando arriva una bambina così in famiglia. Pensi di essere una persona e poi negli anni diventi un'altra cosa, ti guardi indietro e dici: “non è possibile che ho fatto tutto questo”. E allora quando pensi “è finita, non so come fare” esce fuori la soluzione. “Non arrenderti mai” l’ho imparato da Alice. Storia 10: parole sotto il letto Celeste “Eh è difficile fare amicizia… e perchè... non lo so Perchè sono un po' sola, così, perchè mi piace stare per conto mio, perchè un po' lavoro, un po' no. Un po’ c'ho gli affetti, un po' così, perchè a me piace stare un po' per cavoli miei. Sono un po'... sono un po' per cavoli miei. Ma con zia... facevo i biscotti, poi uscivo, leggevo, poi mi coccolava la sera. Andavamo dieci giorni al mare insieme, poi andavamo in campagna perchè io sono mezza torinese mezza romana, sia torinese che romana”. Alessia “Stare nella cameretta mia mi piace, disegnare con i pennelli mi piace. Mettere a posto la roba mi piace. Io so’ intelligente eh!”. Federica “E so fidanzata! C'ha gli occhi azzurri, i capelli castani. E' alto, è di settembre e c'ha cinquant'anni. Mi sposa. Ballo con lui oggi, al piano di sotto, oggi Vedi che faccio coi denti quando mi sento nervosa? Che mi sento nervosa. Vedi che faccio coi denti? Eh so fidanzata. Gli scrivo le lettere qualche volta. Sotto al letto, con le pareti viola”. Storia 11: adulti bambini Grazia Federica è nata prematura e per quattro mesi è rimasta in ospedale. Rifiutava il cibo, non cresceva, stava seduta sul seggiolino con il sondino e con le mani legate: era l’unico modo. Non è semplice sentirsi mamma, a ventidue anni, di una bambina con problemi. E non è stato semplice crescere mia figlia e permetterle, nonostante tutti gli inciampi, di diventare donna. Ho cominciato a respirare un po' quando Federica, a quindici anni, ha iniziato a frequentare l’Opera De Sanctis. In mezzo alla gente si trasforma, diventa un’altra persona. Non ama stare a casa e appena esce fuori “accende la radio”: comincia a chiacchierare, a raccontare ma non bisogna farle domande perché ti dice: “non ho risposte”. Anch’io preferisco stare tra la gente e confrontarmi con le altre mamme. Non mi sento sola. Una volta Federica faceva un po' di capricci sull'autobus. “Vuoi una caramella?". Penso di averla fulminata con lo sguardo quella signora. Mia figlia non è la scimmietta a cui si regala la banana. È grande ormai Federica, anche se, a volte, è ancora la bambina che ho partorito. Ai bambini, invece, spiego chi è Federica. Loro sono contenti. E sono felice anche io. Antonio Ho ottant'anni ed una storia lunga. Con Celeste le cose vanno a momenti. Se non le va bene qualche cosa, anche una fesseria, è veramente intrattabile. Quando le va, invece, racconta, scrive, inventa, disegna, ti sorride. L’angoscia mia è quando non ci sarà più mia moglie. Celeste ha proprio una fissazione per sua madre. "Dove sei mamma?” “Mamma perché non vieni?” “Mamma usciamo?” La chiama in continuazione. Quando la mamma non ci sarà più, sarà una tragedia grande come una casa. E, invece, di me non le frega niente. Quando era piccola, in un tema sulla famiglia, scrisse “mamma guarda sempre la televisione, mentre papà mi fa impazzire di gioia”. Forse non è vero che di me non le frega niente. Storia 12: Dario chi? di Dario Pasquarella “Dario chi? Non lo so”. Ero giovane, avevo 22 anni. Finalmente avevo finito con la scuola. Varcavo la soglia del mondo reale, la vita vera. “Non credo di farcela ad affrontare tutto questo, però devo! Ma come?” E mentre passavo il tempo a ragionare, la mia luce si spegneva. “Ma io chi sono? Ma tu chi sei? Nella vita cosa vuoi fare? Vuoi fare un qualsiasi lavoro capiti oppure vuoi seguire i tuoi sogni? Ancora vuoi credere a tutte le storielle che ti raccontavano le suore? Ancora vuoi far finta che ti piacciano le ragazze? Quindi vuoi vivere tutta la vita dietro ad una maschera? Nooo? Quindi? Sogni di poter lavorare nel cinema e nel teatro? E allora prova! Hai deciso che non si vive di “spero”, ma bisogna fare e connettersi con la natura? Fallo! Ti piacciono gli uomini? E di che hai paura? Che gli altri pensino male, ma che t’importa, l’importante è che tu sia felice. L’importante è che tu sia vero!” E allora ho attraversato quella porta, ho affrontato il mondo, ho iniziato a vivere la mia vita, quella che volevo. “Dario chi? Dario io!” Dario Pasquarella, attore esperto di Teatro Sordo Lis (Lingua deI Segni Italiana), conduttore di laboratori teatrali e atelier, ricercatore nell’ambito dell’espressione corporea e della prosodia visiva della LIS (Lingua dei Segni Italiana). Storia 13: perche’ dovevo essere Vittoria, la nonna di Mattia di Angela Rossi Mia madre mi diceva sempre: “quando non sai una cosa, scendi dal cavallo e chiedi aiuto”. E così ho fatto. Non è un esame la vita, non devi far vedere che sei più brava degli altri. Ci vuole l’umiltà e il coraggio di dire a se stessi “da sola non ce la faccio”. Sette anni fa è nato Mattia, mio nipote. A pensarci bene Mattia è nato quattro anni fa quando, finalmente, ci hanno detto che era un bambino autistico. Il saperlo è stato uno spartiacque. Sono morta e sono rinata nello stesso momento. Che qualcosa non andasse lo sapevo, lo sentivo. Tutti lo sapevano e lo sentivano, ma nessuno trovava il coraggio di parlarne. Il nostro mutismo era un modo per cancellare la realtà “se non ne parliamo non esiste”. Ma io lo sapevo, lo sentivo. Io lo vedevo che Mattia non mi guardava mai negli occhi. Lo vedevo che, a tre anni, non diceva una parola, non chiamava mamma o papà o nonna. Lo vedevo che parlava con la sua manina e la muoveva, la mostrava, la offriva: “ci sono anche se non parlo, non mi vedi?”. Ci siamo spaventati: la manina parlante di Mattia ci ha turbato, allarmato, disorientato. Abbiamo perso la rotta e, per evitare di naufragare, abbiamo gettato l’ancora. Ci siamo fermati, abbiamo chiesto, ci è stato detto. Abbiamo ascoltato e le parole sono state lame taglienti. “Mattia è autistico”. Mi sono sentita sprofondare, ho avuto l’impressione che uno tsunami mi stesse travolgendo, mi si è spezzato il cuore. E poi, oltre al mio dolore, il dolore di mio figlio, di sua moglie, di mio marito. Per la prima volta ho fatto i conti con la mia impotenza: non potevo fare nulla per cambiare la realtà. E allora ho deciso di cambiare me stessa. Ho deciso di fare come diceva mia madre, scendere da cavallo e chiedere aiuto. Dell’autismo non sapevo niente. Tanti anni fa avevo visto un film di un bambino che sbatteva la testa contro le pareti, ma non volevo fermarmi lì. Dovevo capire per provare ad entrare nel mondo di mio nipote. Sono tornata sui banchi di scuola. Un corso di formazione per imparare cos’è l’autismo, chi sono i bambini autistici, come si parla con i bambini autistici, cosa si fa quando non si riesce a parlare con i bambini autistici, cosa si fa quando i bambini autistici vanno in crisi. Una full immersion. Quando uscivo da lì esplodevo e piangevo, tanto, tantissimo, troppo. Io piangevo e mio marito mi aggrediva: “ma perché? lo vedi che soffri, lo vedi che è peggio”? Ma a me non importava. In quel momento, la priorità era Mattia e tutto il resto non contava, neanche le lacrime. I primi tempi sono stati durissimi. È come se ognuno di noi avesse preso una strada senza guardare l’altro, senza tendere una mano. Perché quando stai male non ce la fai ad aiutare l’altro. Mio figlio e mia nuora hanno deciso di avere un altro figlio. “Ho rovinato la vita a Giulia; quando noi non ci saremo dovrà pensare lei a Mattia. Con un altro fratello, o speriamo con un’altra sorella, divideranno il peso” diceva mio figlio. Mio marito si è chiuso nel suo mondo, il dolore lo ha bloccato, annichilito, lo ha ammutolito. Ci siamo allontanati. Una vita insieme e non vorrei immaginarne un’altra, eppure il dolore ci ha allontanati. Io col mio bisogno di sapere, di parlare, di capire. Lui col suo bisogno di silenzio. E poi la piccola Giulia che continuava a ripetermi che non vedeva l’ora che Mattia, il suo fratellino, avesse cinque anni così guariva. Tra tutti loro, io. Il primo anno, un po' meno il secondo, ho capito veramente cosa vuol dire morire dentro e sperare di morire anche fuori. Dentro e attorno a me tutto era spezzato. Era spezzato il sonno, era spezzata la quotidianità, si stava spezzando il legame con mio marito, si stava spezzando la nostra famiglia. Nelle macerie del cuore abbiamo cercato e trovato una forza per ricostruire un senso, per ridare un ordine. Ci siamo affidati a mani esperte e ad orecchie attente, abbiamo imparato a comunicare con Mattia ed abbiamo cominciato a vedere un futuro, dopo il buio. Mattia è diventato grande. È un bambino bellissimo con cui posso discutere di tutto. Quanto è stato bello sentire la sua voce, chiamarmi nonna. I suoi riti, il suo bisogno che tutto sia a posto, come previsto e come deve essere,  non mi spaventano più perché ho capito che questo, e non un altro, è il suo modo di stare nel mondo. Se di notte mi sveglio, il mio pensiero va sempre a Mattia, ma lo penso con un sorriso, lo vedo in cose belle. Ogni giorno è più bello. Abbiamo raggiunto traguardi che a me sembravano impossibili. In questi quattro anni ha imparato tanto, tutti abbiamo imparato tanto. Ho imparato che un dolore smisurato, avvolgente, ingombrante non può essere guardato in faccia da soli. Ho imparato a guardarmi allo specchio e ad accettarmi fragile, ma a difendere il mio diritto di prendermi cura di Mattia, costi quel che costi. Ho imparato a guardare in faccia anche il dolore degli altri, ad accettare i loro silenzi, a capire i loro tempi e a non giudicare le loro paure. Ho imparato a ricomporre dopo l’esplosione e adesso sto ricomponendo anche la mia coppia. Ho imparato a dimenticare l’idea che avevo di Mattia, ciò che volevo che fosse. E solo così ho scoperto la sua bellezza. Ho imparato a conoscere il mondo di Mattia ed ho concluso che questo mondo mi piace e mi appartiene. Ho imparato tante cose e tante altre dovrò impararne. Ma di una cosa sono certa. Se tutto il dolore che mi ha trapassato l’anima è riuscito a trasformarsi in una gioia infinita è solo merito di Mattia. È lui che mi ha indicato la via, è lui che mi ha preso per mano, è lui il mio raccordo anulare. Sono una persona nuova, colorata, grazie a Mattia, sono rinata anch’io. Ho finalmente capito perché sono nata: perché dovevo essere Vittoria, la nonna di Mattia. Storia 14: Blu di emilia martinelli “Papà Papà, c’è il bagno a casa nuova?”. “Certo che c’è” rispose il padre “guarda, ho fatto una foto per fartelo vedere”. Federico aveva un interesse particolare per i bagni, per lui visitare il bagno di ogni luogo che attraversava era d’obbligo, doveva vedere e usare ogni bagno, quello del supermercato, della gelateria, della scuola, del bar in vacanza, di ogni casa in cui entrava, ci andava sempre da solo e ci passava 4 min. Non uno di più né’ uno di meno. Rigorosamente da solo, appena tolto il pannolino a due anni e ½, si chiudeva a chiave in bagno, papà fuori dalla porta ad aspettarlo.  Prima di entrare in bagno si assicurava: “Aspetta fuori” e serrava la porta. Il padre chiuso fuori dalla porta si sentiva inutile e a disagio con quella fissazione del figlio. Federico sapeva già leggere e scrivere, sapeva suonare ad orecchio ogni genere di strumento, ma non riusciva a guardare una persona dritta negli occhi, non riusciva a farsi toccare fino in fondo. Quel giorno Federico e il suo papà erano in spiaggia, sotto l’ombrellone. “E quando ci andiamo a casa nuova?” chiese Federico. “Tra una settimana” rispose il padre. “E poi?” incalzò ancora Federico. Il padre sorrise, ripensò a quante volte aveva risposto a quella stessa domanda, sapeva già che il suo “e poi?” si sarebbe ripetuto almeno altre dieci volte in quella conversazione. Il suo “e poi” era come i perché dei bimbi piccoli, quando cominciano a domandarsi sul mondo e allora i perché diventano incalzanti fino allo sfinimento del genitore. “E poi ci mettiamo tutte le cose mie e tue dentro alla casa nuova” disse il padre mentre costruivano un razzo di sabbia. “E poi?” “E poi la facciamo bella come ci piace a noi” “E poi?” “E poi ci prepariamo una bella cena, anzi prendiamo la pizza da Nico pizza” “E poi?” “E poi ci guardiamo un bel film insieme” “E poi?” “E poi andiamo a dormire, possiamo leggere un po’” “E poi?” “E poi la mattina vai a scuola”. Federico era un bimbo di sette anni, il suo e poi chiedeva al padre una stabilità, chiedeva al padre di passare ancora tempo insieme, di sapere esattamente cosa avrebbero fatto di lì a quando si sarebbero salutati. I suoi e poi scandivano ogni momento trascorso l’uno con l’altro. Mentre costruivano il loro razzo di sabbia, il padre pensava a quanto era alieno a volte Federico, lo chiamava il bambino venuto dallo spazio, per quel suo sguardo sempre sfuggente, uno sguardo che ti penetra e allo stesso tempo scappa sulla luna. Uno sguardo di cui ogni tanto aveva paura, perché lì c’era il riflesso del suo senso di colpa di padre mancante, per l’inadeguatezza provata a capire Federico, fino in fondo. Giocavano tanto il padre e Federico, facevano la lotta, leggevano, costruivano razzi e modellini di ogni tipo, ma c’era un punto in cui il padre non arrivava. Un punto in cui il castello crollava. In cui si chiedeva: “Dov’è davvero Federico? in quale galassia spaziale è finito?”. Quando stava per entrare davvero in relazione con lui, Federico era da un‘altra parte. Lì nello spazio, blu e infinito. Ogni volta che Federico andava in bagno da solo, il padre si sentiva chiuso fuori dalla porta, fuori dal suo mondo chiuso in una bolla dentro il bagno. Federico solo, a fare chissà cosa dentro e il padre fuori. Quella porta serrava i loro due mondi. “Papà, com’è il bagno della casa nuova?” “E’ bello, spazioso, ha una vasca grande” “Andiamo papà? Voglio vedere il bagno nuovo” “Federico ora siamo al mare, e poi casa nuova ce la consegnano tra una settimana” “E poi?” “E poi cosa Federico?” “E poi?” “E poi ci consegnano casa e andiamo lì, come ti ho detto” “E poi il bagno è blu?” “No, è bianco” “No bianco papà, blu, tutti i bagni blu, blu, tutto blu” “Tutti non so, ma il nostro ora è bianco, ma poi lo faremo blu, te lo prometto” “E poi?” “Allora ci appenderemo tutti quadri blu” “E poi?” “E poi mettiamo i pesciolini blu nella vasca” “E poi?” “E poi compriamo il sapone blu” “E poi?” “E poi le asciugamani blu” “E poi?” “E poi potrai andare in bagno tutte le volte che vuoi” “Bagno blù papà, e poi?”  “E poi?” “E poi… ora andiamo al mare a farci il bagno, eh?” Quel giorno di mare, dopo l’ultimo e poi, Federico e il padre si tuffarono in acqua. Federico gridava: “papà ancora, altro tuffo, altro tuffo” e il padre lo lanciava in aria per riprenderlo tra le onde. E poi? E poi ancora tuffi. Quella volta Federico dopo un tuffo sparì, non c’era più, il padre lo cercò per 4 lunghissimi minuti tra le onde, disperato. Federico era sotto l’ombrellone e leggeva. “Federico ma dov’eri finite?” E lui, senza distogliere lo sguardo dal suo fumetto, “Devo andare papà” “Andare dove?” “Andare papà” “Ma dove? Cazzo, Federico mi hai fatto prendere uno spavento” “Blu papà, blu!” Il padre ancora una volta non capiva, innamorato del suo bimbo alieno che non riusciva a capire, ancora una volta era frustrato. “Federico, blu cosa?” Federico voltò le spalle, il padre, sentì un prurito nella mani, doveva sfogare quella preoccupazione diventata rabbia e la mano placò il suo fuoco dritta sulla faccia di Federico. Gli diede uno schiaffo, se ne accorse solo dopo. E il calore si tramutò in freddo, per un momento chiuse gli occhi per nascondere quella mano dentro se stesso, poi sentì la mano di Federico sulla spalla grande. Federico avvertiva la debolezza del padre sempre e anche quella volta lo avvertì. Poggiò anche la testa sulla spalla del padre che lo abbracciò. E poi scappò via, di nuovo, a costruire il suo razzo di sabbia.  Il padre era confuso e stordito e ancora una volta non lo capiva, ma quella volta fece una domanda nuova al figlio, gli chiese l’unica cosa che pensò di poter chiedere al suo Federico: “E poi?” “Nel bagno blu papà” “E poi?” “Io blu nel bagno blu” “E poi?” “E poi arrivi tu papà” “E poi?” “E poi basta papà”. Il padre lo abbracciò, forte forte il suo piccolo blu. Lo portò in braccio fino al bagno dello stabilimento, lo accompagnò fino alla porta del bagno. La porta del bagno era blu, rise lui, Federico no, a Federico interessava solo entrare in quel bagno. E poi il padre disse: “Vai, vai nel blu”. E Federico, come sempre, disse: “aspetta papà”. “Sì, io sarò qui ad aspettarti Federico, sempre qui fuori”. “E poi?” disse Federico. “E poi sarò ancora qui” disse il padre “sempre qui”. Federico entrò, chiuse la porta, ma non a chiave stavolta, il padre avrebbe potuto entrare nel suo spazio blu, ma il padre non entrò. La porta serrava i loro corpi, uno da una parte e uno dall’altra del bagno, ma non serrava padre e figlio. Anche l’attesa del padre era blu ora. CREDITS DEL PROGETTO Ideato, organizzato e prodotto da Fuori Contesto; con il contributo di Fondazione Cultura e Arte, Valdesi , Regione Lazio; con il patrocinio di ASL Roma 1; in collaborazione con MUNICIPIO Roma 1 e Hubstract a cura di Emilia Martinelli ed Angela Rossi interviste realizzate da Angela Rossi testi tratti da interviste, o ispirati ad esse, di Emilia Martinelli ed Angela Rossi disegni Arianna Moncini e Valentina Scoparo progetto grafico di Luigi Vetrani editing Silvia Belleggia Si ringraziano tutte le persone intervistate: Ada, Alessandra, Annamaria, Arianna, Chiara, Cristina, Dario, Eleonora, Efisia, Francesca,  Guido, Irene, Irma, Luigi, Maria, Martin, Maria Cristina, Peppe, Rachele, Valentina. Si ringrazia chi ci ha aiutato a realizzarle e ha sostenuto il progetto: AISM – Associazione Italiana Sclerosi Multipla Associazione Il Filo dalla Torre Onlus – Siamo Nonni Blu Associazione Il Tulipano Bianco Associazione Opera Sante De Sanctis Consulta per le Politiche in favore delle Persone con disabilità – Municipio Roma I Centro Cooperativa Sociale Eureka Primo Onlus Reti Solidali UILDM – Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare Ilaria Dioguardi - Ufficio Stampa AISM - Reti Solidali Barbara Galanti - Associazione Il Tulipano Bianco Caterina Bossio - Associazione Il Filo dalla Torre Onlus. Siamo Nonni Blu Marco D'Alessandro, Lorena Mastrolillo, Katia Pietrucci - Opera Sante De Sanctis Maura Peppoloni - UILDM Emiliano Monteverde – Assessore alle Politiche Sociali e dei Servizi alla Persona, Promozione della salute, Politiche dello Sport, Centri Sociali Anziani del Municipio Roma 1 Centro La pubblicazione TRACCE è stata realizzata per FUORI POSTO. FESTIVAL DI TEATRI AL LIMITE 2019-2020. Il Festival è ideato, prodotto e organizzato dall’Associazione Culturale Fuori Contesto grazie al contributo della Fondazione Cultura e Arte – ente strumentale della Fondazione Terzo Pilastro – Internazionale presieduta dal Prof. Avv. Emmanuele F. M. Emanuele, della Regione Lazio, dell’Otto per Mille della Chiesa Evangelica Valdese (Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi), il patrocinio della Asl Roma 1, la collaborazione del Municipio Roma I Centro e Hubstract – Made for Art. www.festivalfuoriposto.org